"Il suo ultimo respiro" - Nezumi Yanase

fanfic su un personaggio per concorso - Seven Deadly Sins - Ira

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Administrator
    Posts
    1,686
    Location
    Fossi in te controllerei sempre sotto il letto prima di andare a dormire...

    Status
    Anonymes!
    Fanfic realizzata sul tema dei 7 peccati capitali, scegliendo l'ira e come personaggio base Nezumi Yanase

    DEyq1OK
    CITAZIONE
    Una goccia, tre gocce, cinque e poi sette.
    Fermo sulla soglia di casa, era come se l'orologio di quella catapecchia si fosse rotto, bloccando le lancette rumorose ad un orario impreciso e, con esse, anche lo scorrere del tempo. Il mio corpo avvertiva una ad una le gocce che, mosse da una pietà innaturale, si lasciavano cadere su di me, solcando il mio viso sostituendosi alle lacrime amare che si rifiutavano di scendere dai miei occhi tremanti.
    Era sempre stata colpa sua, tutta unicamente colpa sua. I soldi scarseggiavano come il cibo, anzi il secondo in modo peggiore, lui la lasciava morire di fame piuttosto che darle qualche soldo per compare del cibo quanto meno decente o, se non altro, le medicine che le servivano per vivere. Sarebbe ipocrita da parte mia dire che io desiderassi lavorare a 10 anni, nemmeno in guerra o in una situazione disastrosa come la nostra un bambino ha tra i suoi tre, forse nemmeno cinque o dieci, desideri quello di lavorare. Lavorare per portare alla madre qualche soldo perché il padre preferiva vivere da sudicio maiale qual'era piuttosto che salvare la moglie. Eppure andava bene così, per anni mi sono fatto andare bene la cosa, senza desiderare lontanamente un futuro diverso per me. Non avevo alcun diritto di sperare, di desiderare, dato che il mio diritto di respirare stava lentamente morendo con lei, tra le mani di un viscido ammasso di merda e grasso.
    Sogno ancora quella notte, probabilmente abiterà i miei ricordi per tutto il resto della mia vita, come l'ultima volta che i miei occhi riuscirono ad incrociare quelli di mia madre. Nessun bambino di 13 anni, anzi proprio nessuno sulla faccia di questo schifoso mondo, dovrebbe vedere sua madre morire senza essere in grado di muovere un muscolo per salvarla, sentendo sul cuore il peso dei suoi ultimi respiri. Il senso di colpa, la disperazione, gli occhi che tremano mentre risalgono lentamente il profilo di quell'unica donna che tu sia mai riuscito ad amare nei primi 13 anni della tua vita più di te stesso, solcando la sua pelle priva di abiti, ricoperta solamente da lividi e tagli profondi, sanguinanti. Trattieni un conato di vomito, la puzza di sangue è troppo forte ma non puoi vomitare, non puoi permetterti di lasciare come ultimo ricordo a tua madre suo figlio che vomita l'anima sulla soglia di casa. Già, perché lei mi stava guardando, scorsi un leggero stirarsi delle sue bellissime labbra in un sorriso, tumefatte da quel maiale bastardo. Lentamente, col tempo scandito da quelle gocce che cadono dal cielo in lutto, le sue palpebre si abbassano, nascondendo i suoi occhi stanchi, le iridi scure che eclissano la pupilla, trascinandola nell'oblio.
    Il tuo corpo non si muove, e allora cosa fai? Piangi, finalmente sei riuscito a piangere. Sei un patetico buono a nulla... Solo questo mi ripeto mentre sento le gambe cedere, le ginocchia sbattono forte sul cemento distrutto appena fuori da casa mia. Finalmente, quel dolore seppe riuscire a ridare vita ai miei muscoli, così le gattono in contro. Uno, due, tre passi. L'aria è pregna dell'odore del sangue, malsana e pesante, ma solamente perché si tratta del suo sangue non posso nemmeno permettermi di pensare che puzzi. Nei miei occhi umidi di lacrime c'è solo e soltanto lei, il suo viso quasi irriconoscibile, la sua pelle chiara martoriata e sporcata, i suoi polsi legati al termosifone... le sue labbra tumefatte, i suoi occhi vuoti.
    La guardo e mi manca il fiato. La guardo e mi manca la vita.
    Ho paura a sfiorarla, tutt'ora sento ancora sotto le dita la sua pelle morbida se socchiudo gli occhi un attimo, ma mi feci coraggio e la toccai. Una, due volte, la mossi, la scossi, provai in tutti i modi a svegliarla a gesti perché le parole mi mancavano. Chissà quanto tempo era passato... ma ne servì altro prima che dalle mie labbra potesse uscire quell'unico sussurro. “Mamma”. Fu l'unica parola, le uniche cinque lettere che la mia gola riuscì a sputare fuori. Come un bambino che impara a parlare, ripetei quella parola così tante volte da impastarmi la lingua, così tante volte da imprimerla sui muri, da renderne i miei timpani agri se soltanto non avessero compreso anche loro che quella sarebbe stata l'ultima volta che mi avrebbero sentito pronunciare quella parola.
    Passati chissà quanti minuti mi zittii, le sue palpebre non si alzavano, il suo corpo era freddo e aveva preso il colore del pavimenti, altrettanto bianco come il latte, altrettanto sporco e macchiato a vita. Le sue labbra si erano colorate di un viola scuro che non le donava affatto, si erano aperte in un ultimo soffio ed in cuor mio sapevo già che quella era la sua anima che scivolava via dal suo corpo distrutto, assieme ad un rivolo di sangue. Piansi in silenzio, lei non doveva sentirmi piangere mentre lasciava questo mondo, anzi lei non avrebbe dovuto lasciarlo affatto, ma questo purtroppo non potevo deciderlo io.
    Presi un pezzo di stoffa, lo bagnai sotto l'acqua e le pulii il viso, cercai di liberare la sua bellissima pelle da quelle odiose macchie ma più strofinavo e più mi rendevo conto del fatto che lì, quei lividi e quei tagli, ci sarebbero rimasti per sempre. Mi resi conto che non l'avrei più avuta indietro. Strinsi tra le mani quel pezzo di stoffa, era il suo vestito preferito, quello blu a fiori banchi, le stava così bene addosso ma lui lo aveva distrutto comunque, strappandolo dal suo corpo che aveva sempre coperto in maniera divina.
    Urlai. Urlai così forte da lacerarmi la gola, i timpani, il cuore. Urlai perché l'unica cosa che mi restava di lei era quel fottutissimo pezzo di stoffa macchiato col suo sangue, perché tutto il resto lui lo aveva distrutto. Il suo corpo, il suo sorriso, il suo sguardo dolce, questo mondo era troppo orribile per lei ed io lo avevo sempre saputo, ma non avevo mai immaginato che qualcuno potesse prendere i miei pensieri e stravolgerli in questo modo. Io volevo rendere il mondo più bello per lei, lui voleva rendere il suo mondo più bello senza di lei. Piansi tristezza e urlai rabbia, piansi angoscia e urlai disperazione. Strinsi quel pezzo di stoffa al petto, tra le mani sudice, come se fosse tra tutti il mio più grande e stupendo tesoro, come se fosse l'unica cosa che potesse riuscire a chiudere quella voragine che sentivo crearsi minuto dopo minuto nel mio cuore, quell'immenso strappo che la sua morte aveva lasciato... ma in realtà l'unica cosa che lo stava riempendo era odio. Un odio così profondo che un ragazzino non dovrebbe mai conoscere, una rabbia così ustionante da dilaniare in piccoli pezzi l'anima fragile di un bambino.
    Quella rabbia non si spense mai, si nutrì del mio corpo per anni mentre la morte di mia madre rimase solo un ricordo, tenuto in vita da quel pezzo di stoffa e da una macchia di sangue sul pavimento in cucina.
    Sarei un ipocrita se la pensassi veramente così...
    Avevo costretto il mio pensiero ad allontanarla da me, la mia memoria a stracciarne il ricordo, i miei sogni a bruciarne l'essenza. Dovevo andare avanti per lei, dovevo continuare a lavorare, a vivere, a crescere per lei, ma il mio cuore nascondeva un senso di vendetta mai provato prima. Per anni portai quel rancore sigillato dentro di me, rinnegai il suo nome davanti a quell'ammasso di carne putrida che aveva smesso di definirsi mio padre, poco prima che lo facessi io, in definitiva.
    Non avevo più bisogno di lavorare così tanto, la mia unica ragione di vita era stata soffocata dalle sue luride mani. Ora lavoravo solo per me, dopo aver passato tredici anni di vita a vivere per lei, ora vivevo per me. Ciò nonostante, quelle erano mere convinzioni che risiedevano nella mia testa, ma più il tempo passava e più facile mi fu rendermi conto di quanto in realtà stessi vivendo ancora per lei: vivevo per la sua vendetta, era l'odio ed il rancore a svegliarmi tutte le mattine... era il desiderio di strappare con le mie stesse mani quel sorriso malato dalla lurida faccia di quell'uomo, come se farlo potesse ridarmi quello stupendo di mia madre. Volevo vendetta, ma ancora peccavo in forza fisica, quel che bastava per poterlo uccidere per lo meno. Ma poi li vidi sopraggiungere dal mare, e dentro di me tutto si fece chiaro.
    Scesero dalla nave i nostri soldati, i nostri eroi, acclamati da pochi, fischiati come cadaveri ambulanti, che sarebbero morti da un giorno all'altro, per un nonnulla. Morti per noi. Guardai i loro sguardi spenti, la tristezza sui loro visi e sentii un senso di vuoto corrodermi l'anima, quando all'improvviso scorsi due occhi ghiacciati, fieri e sicuri. Gli occhi di chi aveva affrontato la morte e ne era uscito vincitore ma non se ne sarebbe mai vantato, perché la morte che avevano visto quegli occhi era qualcosa di disumano. In tutti i sensi possibili. In quel momento sentii qualcosa muoversi dentro di me, come se un meccanismo inceppato da anni, ricoperto di vecchia e sudicia polvere, avesse deciso di ricominciare a muoversi.
    Un sorriso apparve sul mio viso, la mia bocca si era dimenticata di come e quali muscoli doveva mettere in tensione per compiere quel semplice ma allo stesso tempo tanto complicato gesto, ma mi sentii estremamente appagato. Questo era ciò che avrebbe voluto lei, il mio futuro, l'unico modo che esisteva per dare un senso alla vita che mi aveva donato, pagandola con la sua: sarei diventato un soldato e avrei messo la mia anima ed il mio cuore al servizio dell'intera umanità.
    Strinsi gli occhi. Nel mio cuore sentivo come se mancasse qualcosa, come se avessi lasciato incompiuto un atto: ed, in effetti, mi era rimasta una ed una sola cosa da fare prima di salire su quella nave.

    Quella sarebbe stata l'ultima sera che avrei passato in quella casa, era come se prima del mio cuore fosse stato il mio corpo a rendersene conto. Il mobilio della cucina non era mai stato cosi ruvido al tatto, le finestre mai così opache, il pavimento così scricchiolante. Lo aspettai a casa, ma sopraggiunse prima il suo fetore d'alcol delle sue membra. Sorrisi. L'anticoagulante che avevo comprato con i miei risparmi sarebbe bastato ad abbattere un elefante senza problema alcuno, ma volevo che lui soffrisse di più, che marcissero il suo cuore e la sua anima per tutto quello che aveva fatto, non a me ma a lei. Doveva pagare e lo avrebbe fatto per tutto il resto della sua vita... ovvero per tutta la notte. Fissai la fiala contenente il veleno, le mie iridi si macchiarono del suo verde scuro, le mie pupille si colorarono di morte. La aprii e ne svuotai il contenuto nella birra che quel maiale aveva lasciato in cucina, per poi dirigermi nell'ingresso. Il suo saluto fu rivoltante come al solito, un insulto seguito da un pugno nello stomaco mentre il suo alito marcio mi si fermava in gola, sentii un coito di vomito salire ma cercai di trattenermi. Ancora qualche ora e poi sarebbe tutto fino.
    Non gli risposi, come sempre, come ogni giorno, limitandomi ad uscire dalla stanza, lasciando che si scolasse la sua ultima birra. Dentro di me gli augurai per un istante di gustarsela al meglio, ma me ne pentii immediatamente. Non aveva alcun diritto di farlo, nemmeno nel suo ultimo momento di vita. Rimasi appoggiato al muro, appena dietro l'angolo del vano della porta, e quell'attimo si fermò. Il battito del mio cuore accelerò pian piano, riempendomi le orecchie mentre il movimento del mio torace andava velocizzandosi, sempre di più, finché non lo sentii deglutire. Era come se aspettassi quel suono da una vita, come se le mie orecchie si fossero allenate appositamente per isolarlo e regalarmi l'acustica migliore: il suo ultimo attimo di vita. In quel momento capii però quanta vuota e inutile sarebbe stata quella soluzione per me, per la mia sete di vendetta. Le mie mani tremavano, era come se loro desiderassero ardentemente porre fine alla cosa senza l'ausilio di altro. Capii quanto desiderassi uccidere quell'ammasso di carne putrida e corrotta facendolo urlare di dolore, piangere tutte le lacrime che quel corpo potesse generare, distruggere persino ogni briciola di anima che poteva essergli rimasta per non permettere nemmeno al suo ricordo di restare a questo mondo.
    Lui non doveva morire, doveva disintegrarsi.
    Il mio corpo si mosse da solo. In quel momento i piedi che stavano percorrendo il pavimento dell'ingresso e poi della cucina, portandomi fino al piano cottura non erano miei. La mano che prese il coltello meno affilato di tutti dal ceppo non era mia... Gli occhi dalle iridi chiare che guardavano quell'uomo ubriaco seduto di spalle al tavolo, macchiandosi del rosso che sognanti speravano zampillasse presto dalla sua gola flaccida, quelli molto probabilmente erano miei. “Lurido figlio di puttana, sei solo capace ad ingozzarti di schifezze e rotolare nella tua merda come un maiale..” Non avevo mai sentito quella voce prima, eppure era appena uscita dalle mie labbra. Un sussurro roco e profondo, ricolmo d'odio e rabbia che sgorgava dalle argini di un fiume, un fiume in piena che presto sarebbe straripato. Non lo vidi nemmeno alzarsi barcollante dalla sedia, i miei occhi si rifiutavano di mettere a fuoco una figura umanoide che per me non aveva ormai nessun senso di esistere, nessun diritto di essere ancora al mondo. Qualcosa mi rispose, ne sono certo, riconobbi una sottospecie di grugnito gutturale tipico di un maiale nelle più pessime condizioni, tipico di quell'uomo, ma in quel momento era l'ultimo dei miei pensieri.
    Lo caricai, lo feci d'istinto, e come avrei fatto con una bestia lo gettai a terra di schiena. Gemette di dolore, ma quel rantolo non mi sarebbe mai bastato. I miei occhi appannati d'ira vennero invasi da un fascio di luce proveniente dal basso: il coltello. In quel momento ebbi la certezza che ero veramente io quello che stava in piedi davanti a quell'uomo steso a terra, che lo guardava con un sorriso spento, ipocrita, freddo... sadico. Non mi accorsi nemmeno che la mia mano si stesse muovendo, sentii solamente il suo urlo straziante di dolore, per poi avvertire qualcosa di caldo bagnarmi la mano che impugnava la lama. Ben presto mi ritrovai totalmente coperto di sangue, mi leccai appena le labbra. Il sapore era disgustoso, ma del resto apparteneva ad una persona che poteva essere solamente peggio. Abbassai lo sguardo, gli avevo piantato il coltello da cucina nel bassoventre, esattamente sopra il pene, trapassandolo e, molto probabilmente, infilandolo nei testicoli. Rimasi immobile, stava cercando di dire qualcosa quel maiale ma non lo ascoltai minimamente, i miei occhi incantati a guardare il sangue che zampillava e usciva copioso dalla ferita che gli avevo appena procurato. Ora sì che l'anticoagulante serviva allo scopo.
    Sorrisi. Sentii come qualcosa scattare dentro di me, come se l'odio, il sapore della vendetta, l'ira si fossero impadroniti del mio corpo. Alzai il piede e forte pestai il manico. Lui urlò, io risi.
    Senza più dire una parola, lo lasciai steso a terra, per poi andare in bagno. Mi sentivo come svuotato, libero da ogni preoccupazione, ogni singolo fottuto peso che mi ero portato dietro per anni, appesantendo spalle, anima e cuore. Una calma mai provata in tutta la mia vita. Mi lavai il viso, le mani, cercai di ripulirmi al meglio dal sangue, mi vestii con gli abiti che avevo preparato il giorno prima, per poi uscire nell'ingresso. Non avevo più assolutamente niente che mi trattenesse in quel luogo, anche se avevo ancora la casa in sé, piena di orribili, tristi ricordi, che marcivano attorno a quei pochi felici di mia madre, e... Mi bloccai passando accanto alla cucina, questo non potevo permetterlo. Il suo ricordo doveva restare candido, puro e luminoso, non poteva assolutamente venire macchiato da un maiale come lui. Così tornai in cucina, lui era ancora cosciente perché lo sentii dire qualcosa, probabilmente l'ennesimo insulto. Presi qualsiasi cosa sapessi andare ad olio, benzina o cose simili, avvicinandoli ad oggetti altamente infiammabili ne ricoprii la cucina, svuotando il combustibile sui mobili, sul pavimento, chiudendo poi le finestre per aprire totalmente la valvola del gas. Appoggiai una piccola candela sul tavolo, alta appena un paio di centimetri, uscendo infine di casa.

    Ero arrivato appena sul porto quando sentii un forte boato, la gente urlare, ma non mi voltai nemmeno. Sorrisi, chiedendomi se avesse fatto esplodere casa mia il gas o il combustibile, magari entrambi ma andava bene lo stesso. Ciò che realmente importava era che ora non avevo più una casa alla quale tornare, non ne avevo motivo né tanto meno il desiderio. Tutta la mia vita era racchiusa in quella piccola valigia che mi ero portato via, il mio mondo in quel momento pesava poco più di sei o sette chili, ed il campanello per entrarvi suonava così. “Salve, vorrei arruolarmi alla Human Resources”.
    Una goccia, tre gocce, cinque e poi sette. Ed infine splendette il sole.

     
    .
0 replies since 6/10/2014, 14:38   30 views
  Share  
.